Giustizia a orologeria e forche mediatiche: come la sinistra ha perso sé stessa (e il garantismo)

Non esiste progresso senza diritti. Non esiste giustizia senza misura. E non può esistere una sinistra che affida alle procure la propria identità politica e il proprio programma elettorale.

Da troppo tempo nel nostro Paese si è smesso di distinguere tra una notizia e un giudizio. Un’inchiesta aperta diventa automaticamente una condanna, l’avviso di garanzia si trasforma in una sentenza, e chi prova a dire che la giustizia ha bisogno di tempo, regole, prove e contraddittorio viene guardato con lo stesso “disprezzo”, come un complice.

Il problema è serio. Non solo per chi finisce nel tritacarne mediatico, ma per il clima generale che si respira oramai da anni: un clima avvelenato, in cui la politica si è progressivamente ritratta e le procure hanno occupato spazi colpevolmente lasciati vuoti. Inevitabilmente il dibattito pubblico si è trasformato in un’aula di tribunale permanente, dove ogni giorno qualcuno viene portato sulla pubblica piazza per essere giudicato, senza possibilità di difesa.

Ma non è solo “colpa” dei magistrati. È anche (e soprattutto) colpa della politica e del giornalismo. Una politica sempre più debole, che ha smesso di fare il proprio mestiere: scegliere, decidere, assumersi responsabilità. E un giornalismo che ha spesso rinunciato al suo compito critico per diventare la buca delle lettere delle procure, pubblicando intercettazioni irrilevanti, titolando con linguaggi velenosi, rincorrendo lo scandalo e alimentando il disprezzo.

Così si costruisce un racconto distorto, dove chiunque finisca sotto indagine è descritto come un mostro avido, un approfittatore senza scrupoli. È una forma subdola di giustizialismo, che nasconde dietro il moralismo l’assenza di veri strumenti di comprensione della realtà.

Eppure, dovremmo averlo imparato. Abbiamo già vissuto una stagione di attivismo giudiziario fuori controllo. Abbiamo già visto quanto sia pericoloso “delegare” alla magistratura il compito di cambiare le classi dirigenti. È la politica che deve farlo. Non perché i magistrati siano nemici – tutt’altro – ma perché ogni potere deve restare nel suo campo. E quando la politica si svuota, il vuoto viene riempito da altri poteri. Senza trasparenza, senza rappresentanza, senza mandato democratico.

Il garantismo non è una bandiera di destra, è un pilastro della civiltà liberale e democratica. Non è un favore ai potenti, è una garanzia per i deboli. È ciò che distingue una democrazia da una piazza urlante. È ciò che difende la presunzione di innocenza, la dignità della persona, il diritto a essere giudicati solo dopo che i fatti sono stati accertati, non prima.

E invece, troppo spesso, proprio chi dovrebbe difendere questi valori – la sinistra – ha preferito voltarsi dall’altra parte. Ha accettato la logica del sospetto, del “non può non sapere”, del “se è indagato qualcosa avrà fatto”. Ha lasciato che si costruisse un racconto pubblico in cui la politica è sempre colpevole, il profitto è sempre sporco, l’etica è sempre assoluta.

Ma l’etica, da sola, non basta. Senza politica, senza pragmatismo, senza proposte, diventa solo un alibi. Un modo elegante per non decidere. E infatti siamo arrivati a questo: una sinistra che parla in nome dei princìpi, ma non tocca mai il fango delle scelte. Che si scandalizza, ma non progetta. Che giudica, ma non governa.

Lo abbiamo visto anche di recente, con le inchieste su Milano. Una città che ha cambiato volto, che ha attratto investimenti, lavoro, opportunità. Certo, si può discutere su tutto – sugli oneri urbanistici, sulla redistribuzione, sulla sostenibilità – ed è giusto farlo. Ma non è accettabile che la valutazione politica venga sostituita da un’inchiesta penale. Se qualcuno ha sbagliato, lo si giudichi per i fatti, non per le intenzioni. Non si può criminalizzare un intero modello di sviluppo perché non ci piace la sua estetica.

Chi ha favorito certe scelte urbanistiche può averlo fatto per convinzione politica, non per tornaconto personale. E distinguere tra le due cose non è questione di lana caprina: è la base di una democrazia matura.

Non esiste il reato di “eccesso di crescita”. Esiste, semmai, la possibilità politica di proporre alternative: altri modelli, altri piani regolatori, altre visioni di città. Ma bisogna avere il coraggio di farlo. Di costruirli. Di lottare per essi, non di limitarsi a raccontare ciò che non funziona.

Il rischio, altrimenti, è che si trasformi il diritto legittimo all’opposizione in una lagna moralista. Che si confonda l’intervento pubblico con la nostalgia burocratica. Che si dimentichi che anche nella giustizia c’è bisogno di misura. E che anche nel dissenso c’è bisogno di progetti.

Una sinistra che rinuncia al garantismo, che si fa trascinare dalla giustizia spettacolo, che scambia il codice penale per il programma elettorale, è una sinistra che ha già perso. Non solo le elezioni, ma il suo stesso senso.

Se vogliamo davvero ricostruire uno spazio democratico, civile, progressista, dobbiamo tornare a fare politica. A scegliere. A distinguere. E a difendere chi è sotto attacco quando è giusto farlo. Anche se non ci è simpatico. Anche se ci costa fatica.

Non è una questione tattica. È una questione di libertà. E la sinistra, se vuole essere ancora degna del suo nome, deve cominciare da lì.

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