Separazione delle carriere : sarà vera giustizia?

Tra autonomia e controllo politico, la separazione delle carriere mette alla prova il delicato equilibrio della giustizia italiana.

La recente approvazione della riforma costituzionale che separa le carriere tra giudici e pubblici ministeri rappresenta una svolta storica per la giustizia italiana. Una riforma attesa da decenni, sostenuta da chi invoca maggiore terzietà del giudice e chiarezza dei ruoli. Ma come spesso accade, dietro l’apparente semplicità di uno slogan – “separare per garantire imparzialità” – si nascondono insidie profonde, che meritano una riflessione attenta e non ideologica.

Il principio dell’unità della magistratura, sancito dall’articolo 104 della Costituzione, non è un orpello formale. È il fondamento di un sistema che ha garantito, pur tra mille difficoltà, l’indipendenza del potere giudiziario da quello politico.

Attualmente, giudici e pubblici ministeri sono magistrati selezionati attraverso lo stesso concorso, notoriamente molto difficile, superato il quale i vincitori svolgono un tirocinio di 18 mesi sperimentando, sotto la guida di colleghi esperti, il lavoro in diversi uffici e funzioni. Alla fine, scelgono in base alle proprie inclinazioni e alla disponibilità dei posti se diventare pm o giudici civili o penali. In Italia ci sono circa 6600 giudici e 2200 pubblici ministeri: il passaggio da una funzione all’altra può avvenire una sola volta in carriera e sta diventando sempre più raro (nel 2023 una trentina di casi in tutto). Un rigido sistema di incompatibilità impedisce che un magistrato ricopra funzioni diverse nello stesso procedimento penale. Inoltre, chi cambia funzione deve spostarsi almeno di distretto se non di regione, il che spiega anche perché sono pochi quelli che chiedono di cambiare.

La riforma tende a eliminare del tutto questo passaggio e a separare non solo le funzioni (che appunto sono già separate) ma anche i concorsi e a dividere in due il Consiglio Superiore della Magistratura. Rompere questa unità, creando due carriere distinte significa introdurre una cesura culturale e istituzionale che potrebbe avere effetti imprevedibili.

Il dibattito trentennale che ha preceduto la riforma è stato, soprattutto negli anni della seconda Repubblica, molto ideologizzato. La domanda da porsi, invece, è se al cittadino comune, imputato o vittima di un reato, giova questa riforma. Sarà un cittadino garantito da una giustizia “più giusta”?

Separare la formazione di giudici e PM, creando un concorso e una carriera esclusiva per quest’ultimo, rischia di sottrare all’accusa la cultura della Giurisdizione, ossia dal ius dicere, ossia “dire la giustizia”, ossia cercare la verità dei fatti per decidere se chiedere la condanna o l’assoluzione. Contrariamente a quello che comunemente si pensa, in un dibattito drogato dai pochi gravi errori giudiziari, la maggioranza dei procedimenti penali si conclude con la richiesta di archiviazione da parte del pubblico ministero che, quindi, già opera un filtro rispetto a quello che va poi effettivamente va a processo. Il compito del pubblico ministero, come disegnato dal nostro sistema legislativo finora, non è infatti ottenere la condanna, ma accertare la verità, cercando anche gli elementi che possono scagionare l’indagato. Un PM separato, non più “parte imparziale”, ma formato solo per ottenere la condanna è evidentemente un rischio per le garanzie del cittadino accusato.

Negli Stati Uniti, esempio più classico della netta separazione delle carriere (in molti Stati il Procuratore è addirittura una carica elettiva), di fronte all’”avvocato” dell’accusa, l’accusato ha soltanto il proprio difensore per cercare le prove a discarico. Ovviamente, chi può permetterselo, ingaggia gli avvocati più bravi e costosi, chi non può si arrangia. Non è certo un caso che le carceri americane sono piene di neri e di poveri. Il pericolo di una giustizia classista, che si aggiunge alle tante differenze di classe che si stanno moltiplicando nella nostra società, è un rischio connaturato ai sistemi in cui il pubblico ministero ha come unico obiettivo quello di vincere in un processo, indipendentemente dalla vertà e persino dal suo convincimento intimo. Non posso fare a meno, d’altronde, di notare che la battaglia sulla separazione delle carriere è bandiera di una certa classe politica spesso riferimento dei ceti più abbienti o che cerca tutele ancora maggiori per se stessa. A chi obietta che già ora, con il sistema attuale, c’è una giustizia per i colletti bianchi e una per i cittadini comuni, evidenzio che la soluzione del PM separato accentuerà e non risolverà il problema. Molto più utile, sarebbe a mio avviso, che i vincitori del concorso svolgano obbligatoriamente i primi anni di attività nella funzione di giudice, per poi passare a quella di pubblico ministero, portando con sé la ricchezza di quel “beneficio del dubbio” di cui un buon giudice, e quindi anche un buon Magistrato, deve essere dotato.

L’altro aspetto problematico è la creazione di un CSM ad hoc per i pubblici ministeri da cui dipende la loro carriera. Nel CSM siedono anche i rappresentanti dei partiti nominati dal Parlamento: il rischio più evidente è quindi la politicizzazione del pubblico ministero. Se il PM viene separato dal giudice ma non adeguatamente protetto da ingerenze esterne, si apre la strada a un modello in cui l’azione penale non è più esercitata “obbligatoriamente” ma “opportunamente”. E l’opportunità, si sa, è spesso figlia della convenienza politica.

Va infine detto che la riforma non avrà alcun impatto sui problemi “storici” del processo penale, sui tempi eccessivamente lunghi, sui ritardi, sulle miriadi di adempimenti burocratici e soprattutto sulla drammatica carenza di mezzi e di personale, magistratuale e amministrativo, che si frappongono allo svolgimento di un processo equo. Su questo mi ritrovo nelle parole che ha pronunciato di recente in Parlamento Matteo Renzi che pure è uno che qualcosa da dire su un certo modo di interpretare il ruolo di Pubblico Ministero ce l’avrebbe e come.

Spero che il referendum confermativo del 2026 sarà l’occasione per un confronto vero, che non si limiti agli slogan, ma che coinvolga l’intero sistema Giustizia. E se dovessero prevalere i Sì, come io non auspico, spero che la separazione delle carriere sarà accompagnata da garanzie forti per l’autonomia del pubblico ministero. Tuttavia, farei un torto alla mia intelligenza se non esprimessi in questa sede, il timore che anche questa riforma sia l’ennesimo tassello di un disegno politico che, nell’indifferenza degli elettori, sta spingendo la nostra società verso una democrazia soltanto apparente.

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