Non votare è una scelta. Ma per chi?

L’astensionismo cresce, da anni. Ma non è solo disinteresse: è un grido che la politica non ascolta. Una crisi che scava nel cuore della democrazia. Se votano solo i garantiti, chi resta fuori perde due volte: rappresentanza e diritti.

In ogni elezione si ripete lo stesso copione: alle urne va meno della metà degli aventi diritto, ma nessuno sembra davvero preoccuparsi. Se ne parla per un giorno, poi si gira pagina. Si inventano formule logore – “il partito degli astenuti” – che servono solo ad anestetizzare un problema gigantesco. Come se bastasse un’etichetta per contenere un fenomeno che ha il potere di svuotare dall’interno l’intera architettura democratica.

Ma quel “partito” non esiste. Gli astenuti non sono un gruppo coeso, ma un popolo disperso, mobile, ferito. C’è chi non vota perché arrabbiato, chi perché rassegnato, chi per ostilità, chi per mancanza di alternative credibili. Alcuni lo fanno per protesta, altri per semplice fatica. Altri ancora vorrebbero votare, ma il sistema glielo rende difficile o non li considera abbastanza. Il risultato, però, è lo stesso: un vuoto che cresce. E che rischia di diventare la nuova normalità.

Meno voti significa meno legittimità. Ma soprattutto significa più disuguaglianza. Perché a non votare, sempre più spesso, sono le persone in condizioni più fragili: giovani precari, lavoratori intermittenti, disoccupati, residenti nei quartieri periferici. Chi ha meno tempo, meno soldi, meno strumenti culturali, meno fiducia. E se queste persone non partecipano, non solo perdono voce, ma perdono anche potere. Chi vota influenza le decisioni. Chi non vota le subisce. Così, le politiche pubbliche finiscono per rappresentare solo gli interessi dei garantiti. E i più deboli diventano sempre più invisibili. È un effetto domino che rischia di colpire in pieno il cuore del progetto democratico.

DataTipoTema/DescrizioneAffluenza (%)
2 giugno 1946IstituzionaleRepubblica vs Monarchia89,08
12–13 maggio 1974AbrogativoDivorzio87,7
11–12 giugno 1978AbrogativoOrdine pubblico + Finanziamento partiti81,2
17–18 maggio 1981AbrogativoOrdine pubblico79,4
8 novembre 1987Abrogativo/ConsultivoNucleare + Giustizia65,0
7 ottobre 2001CostituzionaleRiforma del Titolo V34,05
25–26 giugno 2006CostituzionaleRevisione parte II della Costituzione52,46
4 dicembre 2016CostituzionaleRiforma Renzi–Boschi65,47
20–21 settembre 2020CostituzionaleRiduzione parlamentare51,12
12 giugno 2022AbrogativoRiforma giustizia20,4
8–9 giugno 2025AbrogativoQuesiti su lavoro e cittadinanza30,6

Davanti a questa crisi, la politica istituzionale continua a proporre soluzioni tecniche: voto anticipato, voto elettronico, voto fuori sede. Tutte misure utili – e necessarie – per chi ha voglia di partecipare ma trova ostacoli pratici. Ma totalmente inefficaci per chi ha perso ogni fiducia. Il problema non è solo “come votare”, ma “perché votare”. E la risposta non si trova in un’app o in una riforma procedurale. La vera sfida è politica e culturale: ricostruire un legame, oggi spezzato, tra cittadini e istituzioni. Far tornare la politica uno spazio di senso, di riscatto, di azione collettiva. Non una guerra tra tifoserie su TikTok, né una giostra autoreferenziale riservata agli addetti ai lavori.

Chi invita all’astensione attiva, come capita perfino in queste settimane in occasione dei referendum, gioca col fuoco. Alimenta un clima tossico, in cui il disimpegno diventa atto eroico, e il voto un gesto da “ingenu*”. Ma non c’è nulla di rivoluzionario nello svuotare le urne. L’unico effetto è che a decidere restano i pochi che ancora si sentono rappresentati. In fondo, la partecipazione elettorale è un termometro. Se scende, non è colpa della temperatura. È il sistema che ha smesso di funzionare. E allora bisogna intervenire alla radice: non per colpevolizzare chi non vota, ma per capire perché ha smesso. E per ricostruire le condizioni affinché il voto torni ad avere senso.

La buona notizia è che una parte del Paese non si è arresa. Esistono ancora luoghi in cui si discute, si costruisce, si partecipa. Associazioni, comitati, reti mutualistiche, scuole di cittadinanza attiva. Sono esperienze minute, ma preziose. Perché dimostrano che il bisogno di politica non è morto. È solo in cerca di una nuova casa. Ed è proprio da qui che bisogna ripartire. Dando spazio a chi è stato escluso. Riconoscendo il valore politico delle lotte quotidiane. Riformando le istituzioni, sì, ma soprattutto riavvicinando le persone alle decisioni che le riguardano. Il voto non deve essere un sacrificio. Deve tornare a essere un gesto di potere.

Se vogliamo difendere la democrazia, dobbiamo smettere di ignorare l’elefante nella stanza. L’astensionismo non è un rumore di fondo. È l’allarme che ci avverte che qualcosa, nel patto tra eletti ed elettori, si è rotto. Tocca a noi decidere se fingere di non sentirlo. O se, finalmente, cambiare rotta.

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