Il 21 febbraio 1965, Malcolm X fu assassinato a New York davanti alla sua famiglia. La sua morte, avvolta in misteri e teorie di complotto, non ha fermato il suo messaggio di giustizia e liberazione, che oggi risuona più forte che mai nella lotta per i diritti e l’uguaglianza sociale.
Sessant’anni fa ieri, Malcolm X si apprestava a parlare all’Audubon Ballroom di New York, una sala da ballo molto nota ad Harlem. Quel luogo non era un caso: nel decennio precedente, quando era emerso come uno dei paladini più influenti dei diritti umani e della dignità dei neri, aveva attirato folle innumerevoli per i suoi comizi.
Appena stava per prendere la parola, un individuo scagliò un rudimentale dispositivo fumogeno verso il palco. In un attimo di caos, due addetti alla sicurezza si affrettarono a capire cosa stesse accadendo, mentre Malcolm, alzando le braccia, si ritirava. Proprio allora, un altro uomo salì sul palco e, senza pietà, gli sparò al petto facendolo cadere. Altri due, posizionatisi ai lati, lo colpirono alle gambe; nel frattempo, un agente in borghese della polizia di New York cercava disperatamente di soccorrerlo. In quell’istante, con ben ventuno colpi d’arma da fuoco, la vita di Malcolm X si spense davanti agli occhi increduli di Betty Shabazz, sua moglie incinta, e delle sue tre figlie – aveva solo 39 anni.

La sicurezza all’interno dell’Audubon Ballroom era stata lasciata in balia della facilità d’ingresso: seguendo una prassi consolidata, Malcolm aveva deciso di non perquisire i partecipanti, temendo che controlli troppo rigidi potessero allontanare il pubblico. Un errore fatale, che quella notte venne sfruttato dai criminali.
Mentre due individui riuscivano a fuggire, una guardia del corpo fece fuoco su un altro aggressore, Thomas Hagan – noto anche come Mujahid Abdul Halim o Talmadge Hayer – il quale fu prontamente arrestato e rinchiuso.
Il responsabile faceva parte della Nation of Islam, l’organizzazione di cui Malcolm X era stato membro fino all’anno precedente. Ancora attiva oggi, questa realtà è famosa per la sua interpretazione rigida e originale dell’Islam, volta a liberare i neri dall’oppressione. I sospetti si concentrarono immediatamente su di essa, soprattutto dopo che, il 14 febbraio, una settimana prima del discorso ad Harlem, un commando aveva lanciato bombe molotov dalle finestre della casa di Malcolm nel Queens, mentre lui e la sua famiglia dormivano. Sia lui che Betty incolparono Elijah Muhammad, il carismatico leader della Nation of Islam, per quell’attentato.
In meno di dieci giorni, altri due membri – Muhammad A. Aziz e Khalil Islam, che in passato era stato perfino l’autista di Malcolm X – furono catturati e accusati di aver materialmente perpetrato l’omicidio. L’11 marzo 1966, i tre vennero giudicati colpevoli e mandati in carcere.
L’omicidio suscitò subito un turbine di dubbi e sospetti tra i suoi sostenitori. Da tempo, le autorità locali e il governo federale tenevano d’occhio Malcolm, considerandolo una minaccia a causa delle sue idee rivoluzionarie e dell’immenso potere carismatico che esercitava. Di conseguenza, cominciarono a circolare teorie alternative, tra cui quella secondo cui l’FBI e la polizia di New York avessero avuto un ruolo attivo in quella tragedia.
Queste ipotesi si rafforzarono ulteriormente per via delle contraddizioni nei racconti di alcuni testimoni oculari, che affermarono di aver visto Islam, Aziz o entrambi in luoghi differenti proprio al momento dell’attentato. Sin dall’inizio, Aziz e Islam presentarono alibi solidi, supportati dalle testimonianze di familiari e amici. Liberati negli anni ’80, furono definitivamente scagionati solo nel 2021 – anche grazie al documentario investigativo di Netflix, Chi ha ucciso Malcolm X?, che l’anno precedente aveva fatto riaprire il caso. Nell’ottobre, la città di New York fu costretta a versare un risarcimento di 26 milioni di dollari alle famiglie di Aziz e Islam (il primo è ancora tra noi, mentre il secondo ci ha lasciato nel 2009).
Nel 1977, Hagan fece i nomi di altri quattro uomini che, secondo lui, avevano collaborato nell’attacco; tuttavia, quelle accuse non portarono a nulla.

Le modalità di quell’omicidio, avvenuto sessant’anni fa, continuano ancora a far discutere. A novembre, le tre figlie di Malcolm X hanno citato in giudizio la CIA, l’FBI e la polizia di New York, accusandole di aver architettato un piano per renderlo vulnerabile nei giorni precedenti all’attentato – arrestando le sue guardie del corpo e ordinando agli agenti in borghese di non intervenire.
Malcolm X nacque Malcolm Little, ma scelse di abbandonare il vecchio cognome, ritenuto un marchio indelebile dell’eredità dello schiavismo e del colonialismo. In un’intervista disse: “Mio padre non conosceva il suo vero cognome. Lo ricevette da suo nonno, che a sua volta lo aveva preso da un antenato schiavizzato, costretto a portare il nome del suo padrone.” Nato nel 1925 a Omaha, nel Nebraska, la sua infanzia fu segnata da tragedie: a soli sei anni perse il padre e, poco dopo, sua madre fu ricoverata in una clinica psichiatrica.
Nel 1946, per una serie di furti, Malcolm fu arrestato e condannato a otto anni di prigione. All’interno del penitenziario di Charlestown, a Boston, entrò in contatto con i principi della Nation of Islam. Si convertì e trascorse gran parte del tempo a leggere e studiare, trasformando il carcere in una fucina di conoscenza e determinazione. Uscito nel 1952, era già divenuto una figura di spicco all’interno dell’organizzazione.
Cinque anni dopo, la sua fama esplose in tutta l’America. Quando Johnson Hinton, un membro della Nation, fu brutalmente picchiato e arrestato dalla polizia di New York, Malcolm non esitò: in poche ore riuscì a radunare centinaia di persone davanti alla stazione di polizia. Con l’aiuto di un avvocato, chiese di vedere Hinton; inizialmente la polizia si rifiutò, ma di fronte alla crescente pressione della folla, alla fine acconsentì, facendo sì che Hinton venisse portato in ospedale. Quel momento fu la dimostrazione del suo incredibile potere di mobilitazione e della sua capacità di trasformare l’ingiustizia in una chiamata alla rivolta.

Nei dieci anni seguenti, Malcolm X divenne una presenza fissa su radio, televisione e nei giornali, affermandosi come una voce di cambiamento. Tuttavia, nel 1964, a causa di crescenti tensioni con Elijah Muhammad, il leader della Nation of Islam, decise di tagliare definitivamente i ponti con l’organizzazione. Avviò un lungo viaggio attraverso vari paesi del mondo, tornando negli Stati Uniti a febbraio 1965, proprio poco prima del fatale epilogo della sua vita.
Oggi, Malcolm X è considerato un’icona imprescindibile della cultura nera americana, uno dei protagonisti storici della lotta per i diritti degli afroamericani, al pari di figure come Martin Luther King, Rosa Parks, Angela Davis, Stokely Carmichael, Huey Newton, Frantz Fanon ed Eldridge Cleaver. Il suo spirito ribelle e la sua determinazione continuano a ispirare intere generazioni.
Nel 1992, la sua vita fu celebrata in un film diretto da Spike Lee, con Denzel Washington nel ruolo principale – interpretazione che l’anno seguente gli valse una candidatura all’Oscar come miglior attore protagonista. Addirittura, il titolo di un altro celebre film di Lee, Fa’ la cosa giusta – Do the Right Thing, trae ispirazione da una delle sue celebri citazioni, perpetuando il suo messaggio di giustizia e resistenza.