Terzo mandato: tra ambiguità normative e strategie politiche.

Il caso De Luca e la legge campana infiammano il dibattito nazionale: ambiguità normative, strategie di partito e il ruolo decisivo della Corte costituzionale

Negli ultimi giorni, il dibattito politico sull’oramai famoso “terzo mandato” sta letteralmente prendendo fuoco. La scintilla è stata accesa dalla decisione del Governo Meloni di impugnare la legge campana del 5 novembre 2024, che permetterebbe a Vincenzo De Luca di candidarsi per un ulteriore mandato, superando il limite previsto di due mandati consecutivi. L’impugnazione, ai sensi dell’articolo 127 della Costituzione, da parte del Consiglio dei ministri del 9 gennaio 2025 (ultimo giorno utile), ha riportato all’attenzione una questione che da anni divide l’opinione pubblica e i partiti, che mette in discussione le regole istituzionali ma che solleva numerosi dubbi interpretativi e politici.

Il tema, pur partendo dal caso specifico di De Luca, coinvolge una platea più ampia di politici, soprattutto al Nord, dove governatori di centrodestra come Luca Zaia (Veneto), Attilio Fontana (Lombardia) e Massimiliano Fedriga (Friuli Venezia Giulia) hanno espresso posizioni molto critiche verso l’azione del Governo. A loro si è aggiunto anche Alberto Cirio, presidente del Piemonte, e persino il sindaco di Milano, Beppe Sala, che ha allargato la discussione ai limiti di mandato per i sindaci e alla totale assenza di alcun vincolo, anche solo di buon senso o buon gusto, per parlamentari, ministri e sottosegretari spesso in carica ininterrottamente per decine e decine di anni.

Una battaglia politica e strategica

Per Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, la difesa del limite dei due mandati (in Veneto sarebbe il terzo) è una strategia tutta politica, chiara e netta. Impedendo a Zaia di concorrere per un quarto mandato, Fratelli d’Italia potrebbe avere l’opportunità di proporre un proprio candidato nel Veneto per il 2025. Questo non solo consoliderebbe la presenza del partito al Nord, ma segnerebbe anche un passo storico, eleggendo il primo presidente regionale settentrionale di Fratelli d’Italia. Tuttavia, questo intreccio politico si scontra con le ambiguità normative e le questioni di autonomia regionale, creando un contesto complesso che la Corte costituzionale sarà chiamata a chiarire.

La sentenza della Corte, attesa per aprile, non solo definirà l’esito del caso campano, ma potrebbe anche stabilire un precedente significativo per tutte le regioni italiane. La legge del 2004 sui limiti di mandato è stata infatti applicata in modi differenti nel corso degli anni, generando interpretazioni controverse e soluzioni talvolta elusive.

Origini ambigue della norma

La normativa sui limiti di mandato per i presidenti di regione nacque nel 2004, durante il governo di Silvio Berlusconi, con l’obiettivo di porre un freno al consolidamento di un potere eccessivo da parte dei governatori. Questa esigenza era emersa in seguito alla riforma costituzionale del 1999, che aveva introdotto l’elezione diretta dei presidenti, rafforzandone il ruolo e l’autonomia rispetto ai consigli regionali.
Nonostante l’intenzione di creare un contrappeso al nuovo sistema, la legge del 2004 fu concepita con molte ambiguità. Essa prevedeva che le regioni potessero adottare un limite ai mandati, ma usava termini vaghi come “previsione eventuale,” lasciando alle singole amministrazioni un ampio margine di autonomia interpretativa. Inoltre, il testo non chiariva se il limite dovesse essere considerato una forma di «ineleggibilità» o di «incandidabilità». Questa distinzione è cruciale: nel primo caso, un ostacolo alla candidatura può essere rimosso, mentre nel secondo il divieto è assoluto.

Contraddizioni e incoerenze politiche

La normativa sui limiti di mandato ha messo in evidenza le contraddizioni dei principali schieramenti politici. Nel centrodestra, molti leader che avevano sostenuto la legge del 2004 cambiarono successivamente posizione. Raffaele Fitto, ad esempio, all’epoca presidente della regione Puglia, criticò il limite, sostenendo che la decisione di rieleggere un presidente dovesse essere lasciata agli elettori. Paradossalmente, oggi Fitto sarebbe tra i principali sostenitori della norma, in linea con la posizione di Fratelli d’Italia.

Anche nel centrosinistra, le incoerenze non sono mancate. In alcuni casi, le regioni amministrate dal centrosinistra hanno adottato interpretazioni flessibili per consentire ai propri presidenti di prolungare il mandato. Questo è accaduto in Emilia-Romagna con Vasco Errani e in Toscana con Claudio Martini. Più recentemente, il Veneto e il Piemonte, entrambe regioni guidate dal centrodestra, hanno approvato leggi che consentono di “azzerare” il conteggio dei mandati, riaprendo la possibilità di ricandidature per governatori già al secondo mandato.

Il caso campano e la questione giuridica

La controversia che coinvolge Vincenzo De Luca si inserisce in questo contesto di ambiguità e applicazioni divergenti. Secondo De Luca e i suoi “avvocati,” la legge del 2004 non è “auto-applicativa” e richiede un recepimento esplicito da parte delle regioni. Per questo motivo, la Campania ha approvato qualche mese fa una norma che stabilisce che il computo dei mandati decorra solo dal momento della sua entrata in vigore.
Il governo Meloni, invece, sostiene che la norma sia valida automaticamente dal 2004 e ritiene incostituzionale la legge campana nonostante solamente un anno e mezzo fa abbia ritenuto perfettamente legittima quella della regione Piemonte, in cui Fratelli d’Italia è il partito di maggioranza relativa.

La Corte costituzionale è stata chiamata a esprimersi su questo nodo giuridico, che riguarda non solo il caso campano ma l’intero quadro normativo nazionale. Sebbene in passato la Corte abbia confermato la legittimità dei limiti di mandato per i sindaci, la questione dei presidenti di regione presenta peculiarità che richiedono un approfondimento specifico.

Conclusioni

Il dibattito sui limiti di mandato per i presidenti di regione rappresenta un intreccio complesso di questioni politiche, giuridiche e istituzionali. Le ambiguità della legge del 2004 e le applicazioni disomogenee da parte delle regioni hanno alimentato un conflitto che dura da vent’anni. La decisione della Corte costituzionale potrebbe finalmente porre fine a questa lunga disputa, offrendo un orientamento chiaro e uniforme per il futuro. Tuttavia, resta da vedere se le regioni accetteranno senza riserve un verdetto che potrebbe limitare la loro autonomia legislativa.

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