I referendum dell’8 e 9 giugno rischiano di trasformarsi in un teatrino ideologico che allontana la politica dalle sfide vere del lavoro e del futuro. Schlein cerca legittimazione a sinistra, la CGIL combatte una battaglia simbolica. E i lavoratori ?
C’è qualcosa di profondamente stonato, a mio parere, nella campagna referendaria di queste settimane. I quesiti, promossi dalla CGIL e sostenuti dalla segreteria Schlein (oltre che da AVS, M5S, etc), parlano di reintegra nei licenziamenti, causali nei contratti a termine, responsabilità negli appalti. Parlano, insomma, il linguaggio delle tutele di un’epoca che non esiste più, utilizzando un lessico e una mistica incomprensibile a chi nel secolo scorso era adolescente o nemmeno nato.
Eppure, invece di aprire un dibattito “universale” sul futuro del lavoro, ci stiamo incastrando in una battaglia di trincea tra nostalgie, vecchie canzoni e anatemi.
Credo che Elly Schlein, o chi per lei, sappia, ad esempio, che il quorum sia un miraggio, a maggior ragione dopo che è “saltato” quello sull’autonomia differenziata. Proprio per questo appare talmente evidente che il vero obiettivo non sia tanto vincere, ma contarsi: ricompattare l’anima più radicale del partito (che tanto maggioritaria non sembra a guardare la scarsa mobilitazione dei suoi parlamentati e delle sezioni), riallacciare il rapporto con la CGIL di Landini e dire all’Italia che il PD “sta dalla parte dei lavoratori”. Un’operazione di marketing identitario, più che una proposta di cambiamento, che ad alcuni lavoratori, soprattutto quelli che tutele e diritti non ne hanno mai avute ma rappresentano il 20% del mercato del lavoro. Eppure, per una sinistra che dovrebbe parlare di come costruire nuovi diritti nel lavoro che cambia, sembra una mossa disperatamente rivolta all’indietro.
Non che le questioni siano finte: i salari stagnano, la precarietà dilaga e la giungla dei contratti sono diventati il simbolo dell’impotenza politica. Ma nessuna di queste ferite si cura con una legge degli anni Novanta. Tornare all’articolo 18, oggi, significa escludere chi sta fuori dai contratti stabili; vuol dire proteggere chi ha già tutele, dimenticando chi non le ha mai avute. Il rischio è una tutela diseguale, che rafforza le disuguaglianze invece di ridurle.
Anche sul piano tecnico, i quesiti sono fragili. I giuslavoristi parlano di conflitti normativi e impatti disfunzionali. Le imprese temono un freno alle assunzioni. E gli economisti avvertono che irrigidire il mercato oggi equivale a rendere il lavoro ancora più instabile, ancora meno inclusivo. Un paradosso che solo l’ideologia può ignorare.
Ma il punto più grave è un altro: stiamo perdendo tempo prezioso. Invece di una grande mobilitazione per il salario minimo, la rappresentanza sindacale, la contrattazione inclusiva o la formazione permanente, ci avvitiamo in una “finta” battaglia referendaria che non cambierà nulla, se non i rapporti di forza interni a una parte della sinistra. Non servono bandiere simboliche, servono strumenti nuovi. Perché il lavoro sicuro, giusto, dignitoso non nasce dalle ceneri di un passato idealizzato, ma da politiche concrete capaci di agire nel presente e parlare a tutti i lavoratori.
Che Schlein provi a tenere insieme il suo PD è comprensibile, che la CGIL cerchi visibilità dopo anni ai margini è persino legittimo ma che tutto questo venga scambiato per una risposta ai bisogni dei lavoratori è, a mio parere, inaccettabile.
Se si vuole costruire un nuovo patto sociale, serve coraggio. Ma il coraggio oggi è scommettere sul futuro, non rifugiarsi nelle nostalgie del Novecento.