Perchè festeggiare la Repubblica Italiana

Il 2 giugno 1946 ha segnato l’inizio di una trasformazione silenziosa e profonda: non una frattura, ma la costruzione paziente di una democrazia fondata sul pluralismo, la Costituzione e il popolo sovrano. Oggi, nel tempo delle disillusioni politiche, ricordare quella data significa riscoprire il coraggio della Repubblica e ripensare insieme le sue promesse incompiute.

La Festa della Repubblica non è solo una rievocazione. È un appello. Ogni 2 giugno torniamo a guardare il cielo delle Frecce Tricolori, a udire inni e discorsi, ma ciò che dovremmo davvero ascoltare è la voce di una storia che ci riguarda da vicino. Non quella oleografica, dei cortei e dei gonfaloni, ma quella delle scelte difficili, dei compromessi costituenti, delle speranze ancora aperte.

Una transizione senza vendetta – Nel 1946, dopo la guerra, la miseria e il fascismo, l’Italia scelse. La monarchia, delegittimata dal ventennio e dallo sfacelo della guerra, venne accantonata con un referendum che affidava la sovranità al popolo. Non fu una rivoluzione cruenta. Non ci furono epurazioni massicce né restaurazioni mascherate. Semmai, un passaggio incredibilmente pacifico. Il popolo si espresse — diviso, certo — ma la Repubblica prese forma senza il bisogno di strappi né vendette.
E questo è un aspetto straordinario: chi aveva votato monarchia non si organizzò per rovesciare il nuovo ordine. Non ci fu una “Weimar italiana”. Il consenso repubblicano, inizialmente minoritario al Sud, diventò patrimonio condiviso. Un’accettazione, forse, più pragmatica che ideologica. Ma comunque reale. Anche i monarchici più conservatori entrarono nell’Assemblea Costituente senza rivendicare nostalgie.

Un compromesso che ha fatto scuola – Fu decisiva la scelta — voluta anche dagli Alleati e appoggiata con saggezza da De Gasperi — di affidare a un referendum popolare la forma dello Stato, evitando la trappola delle scelte imposte dall’alto. Così la Repubblica nacque con una legittimità impossibile da contestare: nessuna manipolazione, nessun complotto di partito. Solo l’esercizio della sovranità popolare, come recita l’articolo 1 della Costituzione.
Quel 2 giugno fu molto più di una data simbolica. Fu l’inizio di una nuova grammatica politica. Una grammatica scritta non solo con passione — quella della Resistenza — ma anche con razionalità: quella dei giuristi e dei costituenti che seppero costruire un assetto istituzionale non perfetto, ma saldo.

La “clausola di eternità” e il lungo dopoguerra – La forma repubblicana è oggi blindata dall’articolo 139 della Costituzione: non può essere oggetto di revisione costituzionale. Ma questa inviolabilità non è una gabbia: è un ancoraggio. La Repubblica non è solo una struttura istituzionale, è un progetto politico, sociale e culturale. La sua tenuta, almeno fino alla fine degli anni Settanta, fu garantita da un equilibrio fecondo tra partiti e istituzioni.

Poi, qualcosa si è rotto – L’assassinio di Aldo Moro, e con lui il naufragio del tentativo di trovare nuove convergenze politiche tra visioni diverse, segnò un punto di non ritorno. Si ruppe il filo che univa le forze politiche al disegno costituzionale originario. Da lì, il lento collasso della “Repubblica dei partiti” non fu più arrestabile. L’onda lunga di Tangentopoli, del disincanto e della sfiducia avrebbe travolto tutto.

La Costituzione regge, i partiti no – Eppure, in mezzo al naufragio della politica, la Costituzione ha retto. Ed è forse questo il paradosso più affascinante della nostra storia repubblicana: una Costituzione che nacque da un compromesso fragile, ma che è diventata forte proprio perché è riuscita a radicarsi nella società.
Mentre i partiti diventavano progressivamente autoreferenziali e a tratti antisistemici, incapaci di rappresentare davvero il pluralismo del Paese tanto da portare l’affluenza percentuali vergognose, la Costituzione restava una bussola. Una Carta capace di parlare al popolo anche quando il linguaggio della politica diventava incomprensibile. Una Costituzione viva, perché interpretabile, adattabile, ancora capace di porre limiti al potere e di indicare mete di giustizia sociale.

Tre pilastri di resistenza democratica – Cosa ha evitato che tutto si disgregasse? Tre fattori, come ci ricorda la storia recente:
– il ruolo del Presidente della Repubblica come garante super partes
– la spinta dell’integrazione europea
– la giurisprudenza evolutiva della Corte Costituzionale.

Sono stati questi elementi — indipendenti dal fallimento dei partiti — a evitare il tracollo. A restituire, anche solo in parte, una cornice istituzionale credibile a un sistema politico in crisi perenne. Pensiamo ai governi Monti o Draghi: impensabili senza la legittimazione “dal Colle”. O alle sentenze che hanno messo un freno agli eccessi del regionalismo differenziato. O ancora al ruolo dell’Unione Europea nel dare senso e orizzonte a una Repubblica che, senza un ancoraggio sovranazionale, rischierebbe di perdersi nella deriva populista.

Repubblica è futuro – Ma non basta resistere. La Repubblica, per restare viva, deve anche rilanciare. Non può limitarsi a sopravvivere per inerzia. Deve tornare a essere ciò che fu nel 1946: una promessa di trasformazione. Non una rivoluzione distruttiva, ma un cambiamento profondo nel nome dell’uguaglianza, della libertà, della giustizia sociale. Un progetto in cui lo Stato non è padrone, ma strumento. Non spettatore, ma attore della vita democratica.
Essere repubblicani oggi vuol dire prendere sul serio quel vincolo di cittadinanza che unisce mondi diversi, territori spaccati, classi sociali in conflitto. Vuol dire avere il coraggio di costruire politiche inclusive, basate sui diritti, sul lavoro, sulla partecipazione. Non c’è bisogno di rifondare la Repubblica, ma di ricordarsi da dove viene e perché è nata.

Il 2 giugno è anche oggi – Ogni crisi del nostro tempo, dalle disuguaglianze alla fragilità delle istituzioni, dalla polarizzazione mediatica alla sfiducia nella rappresentanza, può trovare risposta se ripartiamo dallo spirito del 2 giugno: popolare, costituente, aperto.

Essere repubblica, oggi, è avere ancora il coraggio di scegliere. Di ascoltare. Di cambiare. Insieme.

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