Il referendum che fa paura a chi ha paura dell’uguaglianza

Disinformazione, odio social e sabotaggi politici: così si cerca di affossare una riforma minima ma giusta. Il referendum dell’8 e 9 giugno ci chiede solo una cosa: essere civili.

Un referendum per dimezzare gli anni necessari a richiedere la cittadinanza italiana — da 10 a 5 — non dovrebbe essere materia da guerra ideologica. E invece, anche stavolta, lo è diventata. Il voto dell’8 e 9 giugno si svolgerà in un clima inquinato: da disinformazione sistematica, appelli all’astensione mascherati da “posizione politica”, e una retorica tossica che ha fatto della paura dell’altro il suo carburante preferito.

Eppure il quesito è chiaro e ragionevole. Non chiede cittadinanze automatiche, né lo “ius soli”, né rivoluzioni giuridiche. Semplicemente propone di tagliare a metà un’attesa spropositata — dieci anni — per poter avviare l’iter, comunque lungo e complesso, che può portare un cittadino straniero a diventare italiano. Dieci anni prima di bussare, poi anni di attesa per una risposta. Non è una soglia, è un muro.

Un referendum osteggiato dal primo giorno

La proposta referendaria è nata dal basso. A promuoverla sono state associazioni come Italiani senza cittadinanza, Idem Network, CoNNGI, con il sostegno di +Europa e altre realtà civiche. 637.487 firme raccolte, una Corte Costituzionale che ha dato il via libera, un Presidente della Repubblica che ha firmato il decreto: tutte le tappe democratiche sono state rispettate. Ma da quel momento in poi, la corsa è diventata ad ostacoli.

Durante la raccolta firme, chi sosteneva il referendum – come Zerocalcare o Ghali – si è trovato travolto da una campagna d’odio online. Su X (l’ex Twitter), un hashtag razzista è diventato virale grazie a un pugno di profili falsi, alcuni con riferimenti hitleriani. Una macchina del fango alimentata a tavolino e poi rilanciata da utenti inconsapevoli. Non una protesta autentica, ma un’operazione di sabotaggio.

E quando non basta l’odio, si punta al silenzio: la parola d’ordine nel centrodestra è “astenersi”. Lo ha detto Tajani, lo ha ribadito la Lega, lo ha lasciato intendere Meloni. La strategia è chiara: far mancare il quorum, far fallire il referendum senza mai entrare nel merito. Perché argomentare sarebbe più difficile che scomparire.

La grande menzogna: “l’Italia regala troppe cittadinanze”

A rendere ancora più tossico il dibattito è la disinformazione. Si continua a ripetere – da parlamentari e ministri – che l’Italia sarebbe “il Paese europeo che concede più cittadinanze”. Un dato preso in parte dal vero, ma decontestualizzato ad arte.

Sì, nel 2022 l’Italia ha concesso 214mila cittadinanze. Ma perché? Perché qui vige una legge del 1992 che nega la cittadinanza automatica anche a chi nasce in Italia, da genitori stranieri, e vive qui per tutta la vita. Altrove – in Germania, in Francia, in Spagna – chi nasce nel Paese può diventare cittadino molto prima, a volte automaticamente. Da noi, no. Ecco perché i numeri italiani sembrano alti: perché si concentrano tutte insieme richieste che altrove si diluiscono nel tempo o nemmeno servono.

Il confronto serio, insomma, andrebbe fatto sulla qualità della legge, non sulla quantità degli atti amministrativi. E la verità è che la nostra legge è tra le più rigide d’Europa: lo dice il Migrant Integration Policy Index, lo conferma il Global Citizenship Observatory. Altro che “troppo generosa”.

Una questione che riguarda noi. Tutti noi.

Questo referendum non è un favore a qualcuno. È un gesto di civiltà verso centinaia di migliaia di persone che già vivono con noi, lavorano con noi, crescono con i nostri figli, ma restano sospese in un limbo legale e simbolico. Molti di loro non riescono nemmeno a far partire l’iter per ottenere la cittadinanza, perché dimostrare dieci anni di residenza legale continuativa – tra affitti in nero, contratti precari e documenti difficili da ottenere – è un’impresa.

La proposta referendaria non promette automatismi. Chiede solo di rendere più accessibile una richiesta, e di farlo in tempi umani. Oggi ci vogliono dieci anni per poterla fare, poi si aspettano altri due, tre, a volte cinque. È come dire a qualcuno: sei italiano, ma fra quindici anni.

E quando finalmente arriva, la cittadinanza si estende anche ai figli minorenni. Ecco perché è una questione che riguarda anche le famiglie, le scuole, le comunità. Riguarda l’idea che abbiamo di “noi”.

Astensione o partecipazione: è una scelta politica

La scelta di non andare a votare non è neutra. Non è una “non scelta”. È un atto politico, e in questo caso, è un atto che serve solo a impedire che si apra una porta. Chi si astiene, lascia decidere agli altri. Ma soprattutto, consegna la vittoria a chi quel cambiamento non lo vuole neanche discutere.

Il referendum non è la riforma perfetta. È il minimo sindacale. Ma è anche un’occasione per ribadire un principio: la cittadinanza non è un premio, è un diritto che si conquista, sì, ma in modo equo, accessibile, ragionevole. Oggi non è così.

L’8 e 9 giugno, votare SÌ non significa dire che tutto andrà bene. Significa dire che tutto può andare un po’ meglio. Che la nostra democrazia non ha paura di includere. E che chi vive qui, qui appartiene.

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